Di aeroporti, passaporti e timbroporti

Una volta un amico mi ha detto che il motivo per cui ama gli aeroporti è che sono dei “non luoghi”, spazi di transizione in cui non si è più dove si era prima ma non si è ancora dove si vuole arrivare. Personalmente non ne ho mai avvertito il fascino; anzi, li ho sempre percepiti come un ostacolo tra me e l’inizio dell’avventura che sto rincorrendo. Se sono enormi, come Fiumicino o Charles de Gaulle, mi sembrano dispersivi e sovraffollati. Se sono minimalisti, come Ciampino, mi irrita l’essere stipati uno accanto all’altro in attesa dell’imbarco.

E tuttavia, mentre scrivo, mi accorgo che questo vale solo per gli aeroporti di partenza. Perché all’arrivo è tutt’altra storia. E c’è una cosa che mi emoziona e allo stesso tempo mi terrorizza degli aeroporti in cui atterro: il controllo passaporti. Il momento in cui gli onnipotenti esseri mitologici preposti alla verifica dei documenti decidono del destino di noi comuni mortali. Seminascosti dietro un vetro, seduti su sgabelli volutamente posti sotto il livello del mare per renderli ancor meno visibili, rappresentano di fatto il nostro primo contatto con la popolazione locale.

Non mi è mai stato rifiutato un timbro d’ingresso, né sono stata rispedita indietro. Almeno fino ad oggi. E l’amore universale che il resto del mondo nutre per il nostro Paese mi ha sempre fatto sentire piuttosto certa di superare i controlli senza problemi. Anzi, è proprio per l’interesse che suscita un passaporto italiano, soprattutto nei Paese dell’est, che molto spesso gli ufficiali della dogana, apparentemente incapaci di esprimersi a parole in qualsivoglia lingua e chiaramente seccati dalla ripetitività di un lavoro alienante, in maniera del tutto inaspettata si animano per sfoggiare le tre parole imparate con le canzoni di Celentano.

Se c’è una cosa che amo degli aeroporti è dunque proprio questa. E non c’è miglior benvenuto in un Paese straniero di quello che meno si aspettava.

Russia: atterrata a Mosca per la quarta volta, presento all’ufficiale il mio passaporto, su cui fa bella mostra il visto dell’ambasciata. Lui mi guarda e sorride: “Benvenuta. Vedo che è la tua prima volta qui”. Io lo fisso risentita e nel mio russo migliore gli spiego che assolutamente no, ho studiato a Mosca e conosco bene la città. Lui mi interrompe: “No, intendo che è la prima volta che atterri in questo aeroporto, Domodedovo”. Terrore. Allora quello che si dice sul KGB è vero. Siamo tutti schedati. Sanno tutto di me (che poi, cosa c’è da sapere?). Sfoggio il mio sorriso più ebete e mi allontano ringraziando, ancora in preda ai brividi. Ovviamente non c’era nessun agente alle mie calcagna, e la Federazione Russa ha cose più importanti di cui occuparsi (frase diplomatica inserita appositamente per rassicurare l’impiegato addetto al mio prossimo visto russo qualora si trovasse a leggere questa pagina). Si tratta del solito errore da principiante: ero ancora così inesperta da non sapere che sui timbri d’ingresso e d’uscita non viene specificata solo la città ma c’è anche un codice diverso per ogni dogana (e dunque per ogni aeroporto). You live, you learn.

Moldavia: dialogo improbabile ma veritiero con l’ufficiale del controllo passaporti:
(guardando la mia foto) Puoi sorridere?
– Come?
– Puoi provare a sorridere, per favore?
– In che senso?
– Con quel broncio non riesco a capire se assomigli davvero alla foto. Prova a sorridere e vediamo se i denti sono gli stessi…

Ucraina: in questo caso il funzionario è una vecchietta di settant’anni circa, che immagino stia coprendo il turno del figlio mentre quello smaltisce la sbornia. Guarda ammirata le pagine del mio passaporto con i timbri d’ingresso e d’uscita ucraini dei precedenti viaggi. Alza lo sguardo e mi dice con aria complice:
– Suo marito vive qui, vero? (E aggiunge, senza nemmeno aspettare la risposta) Che carini!
In un Paese in cui l’età media a cui ci si sposa è di 22-23 anni, non ho il cuore di infrangere le sue speranze romantiche. Annuisco riprendendo il mio passaporto e mi avvio verso l’uscita. Sorriso ebete di circostanza.

 

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Si fa presto a dire treno

Per chi, come me, preferisce l’aereo a qualsiasi altro mezzo di trasporto, è difficile capire perché diavolo gli slavi si ostinino a misurare le distanze in giorni di treno necessari a coprirle. Forse la verità è che, se nasci nel Paese più grande del mondo, impari presto che  il tempo che impieghi ad arrivare in un posto non puoi considerarlo perso, che è anch’esso esperienza, sensazioni. Un pezzo di vita, la tua.

E da qui l’immensa varietà di significati, immagini, concetti che la lingua russa ha per descrivere quello che per un europeo è un “viaggio in treno”.

La prima distinzione da fare è quella tra poezd ed električka, che già da sola basta a far impazzire un cervello italiano. Un’električka è un treno suburbano, generalmente utilizzato per distanze più brevi (please, considerare sempre i concetti geografici in chiave russa: brevi distanze = anche 7 ore di treno), di poche pretese e con solo posti a sedere. In realtà l’električka è una porta spazio-temporale che ti catapulta indietro di qualche decennio, orientativamente dagli anni ’60 agli ’80, a seconda di quanto si è fortunati.

Električka di tipo 1: comodi sedili in legno ispirati alle panchine dei giardinetti pubblici

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Aprile 2014. Anche detto Marzo 1967

Si tratta di un’električka che ha avuto il suo momento di gloria in Moskva slezam ne verit, vincitore dell’oscar come miglior film straniero nel 1981, e per ovvi motivi tutt’oggi ancora in voga.

Potete vedere qui una scena in cui la nostra električka recita da protagonista https://www.youtube.com/watch?v=juZZZvGTT7o

La prerogativa di questa električka è sicuramente la comodità:

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Električka di tipo 2: si tratta di un’evoluzione che condensa i tratti principali delle električki storiche con un design più moderno e raffinato, dal chiaro sapore kitsch anni ’80.

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Immancabile lo schermo che si accende ad orari improbabili per trasmettere a tutto volume uno sceneggiato russo che quasi sicuramente non riuscirai a finire di vedere prima di scendere. Ma la vera chicca di quest’električka è un’altra: l’apribottiglie presente sullo schienale di OGNI sedile (anche se ovviamente, come ricordato dai simboli altrettanto presenti accanto ad ogni fila, a bordo è vietato bere alcolici. Sì, sono quelle contraddizioni che fanno grande un popolo…):

Per rispondere alle domande che, sono certa, a questo punto si saranno formate nelle vostre menti: sì, sta cosa è vera; no, all’inizio nemmeno io ci credevo; sì, me l’hanno dimostrato; sì, a quanto pare per uno slavo questa è una cosa ovvia.

Ma lasciamo da parte il fantastico mondo delle električki per arrivare a parlare del vero e proprio treno, il poezd, quello che copre le lunghe distanze e in cui quindi si può dover passare qualche ora, qualche giorno o qualche settimana. Ovviamente anche in questo campo gli slavi sono un passo avanti (o indietro, a seconda dei punti di vista). Sì, perché, oltre ai normali posti in poltrona o in cuccetta, loro possono acquistare anche un posto in plazkart, ovvero un posto letto in un corridoio in cui ci sono centinaia o più probabilmente migliaia di posti letto. Sostanzialmente un ostello su rotaie.

E voi pensate che quello sia un tavolino. Ingenui. Quello va capovolto per creare… un altro posto letto, ovviamente.
Questi invece sono i comodi gradini per arrivare ai “piani alti”:


Vorrei che fosse chiaro che per i miei coetanei slavi viaggiare in un plazkart non solo è una cosa normale, ma è pure abbastanza figo, per un’altra serie di ragioni che noi europei probabilmente stiamo un po’ perdendo: viaggiando in plazkart si conosce un sacco gente, ci si racconta le proprie vite, si condividono esperienze, e anche il tempo assume un altro valore, lo puoi sentire davvero scorrere in modo diverso.

Chissà, forse la risposta giusta alla domanda “Quanto dista Mosca da Pietroburgo” è davvero “8 ore in plazkart“.

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Di umanoidi e sopravvivenza

La prima volta che mi sono trovata a dover attraversare un incrocio a Mosca mi si è presentata nitida davanti agli occhi una diapositiva della mia morte “da auto russa”.

Bisogna innanzitutto precisare che le vie del centro di Mosca hanno mediamente 6 corsie, il che equivale, in scala italiana, a cercare di attraversare l’Autostrada del Sole.

Il concetto di disciplina sovietica non è apparentemente applicabile al codice stradale, e così le strisce pedonali sono state praticamente abolite per evitare che orde di pedoni frettolosi vengano falciate da automobilisti zelanti.
Per attraversare si deve ricorrere a dei sottopassaggi (perexody) che consentono di raggiungere l’altro lato della strada senza ritrovarsi mutilati.

Ma i perexody non sono dei semplici tunnel, delle gallerie pedonali. No. Sono molto di più. Dei regni sotterranei in cui vivono strane creature apparentemente dedite al commercio, una nuova razza umana adattatasi a vivere e vendere in condizioni inutilmente ostili. Nei sottopassaggi di Mosca prosperano chioschi e negozi di dimensioni (credo proprio per legge) inferiori ai 3 mq, in cui commessi svogliati convivono con merci obsolete e pressoché indesiderabili. In questi locali non c’è il riscaldamento e non è raro osservare quelli che a un primo sguardo sembrerebbero umanoidi sonnecchiare su una scomoda sedia, o addirittura in piedi, contro le vetrine, per cercare di sopravvivere alle intemperie o morire nel sonno.
I chioschi dei perexody sono per Mosca un po’ quello che i negozi cinesi sono per Roma: rivendite di cose pressoché inutili a prezzi talmente ridicoli che poi si finisce per comprarle. Non mancano, ovviamente, gli stand gastronomici, che danno ai sottopassaggi quell’odore di pirog (una specie di panzerotto ripieno) fritto particolarmente invitante per chi si è appena svegliato e cerca di arrivare a lavoro.

Come è facilmente intuibile, i turisti europei, e in particolare i più svegli – gli italiani, ignari dell’esistenza dei perexody, camminano per chilometri e chilometri alla ricerca di strisce pedonali o semafori che consentano loro di raggiungere il tanto agognato fast food sul marciapiede opposto. I più, scoraggiati dall’improba impresa, si lasciano morire di fame e per tutta la durata del loro soggiorno camminano su un solo marciapiede, avanti e indietro sulla stessa via. Ma qualche prode – e questo è un aneddoto di vita vissuta (vissuta, chiaramente, non da me, bensì da uno dei miei turisti più promettenti) – decide di lanciarsi, di abbandonarsi al proprio destino e attraversare la Via Tverskaja (6 corsie per 3 km di lunghezza), per avere qualcosa da raccontare ai nipoti. Salvo poi non sapere come tornare in hotel (la sorte non la si può certo sbeffeggiare due volte in un giorno) e mandare la moglie a chiedermi di soccorrerlo.

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Tutte le catastrofi portano a Mosca

Nell’immaginario italiano non c’è spazio per la sconfinata geografia russa. E lo dico con cognizione di causa, visto che nel mio cervello trovano a malapena posto le nostre province (che, per complicarmi ulteriormente le cose, aumentano e diminuiscono di numero ad ogni giro di giostra). Non voglio, quindi, che percepiate questo post come un rimprovero, ma piuttosto come un invito a recepire con prudenza notizie giornalistiche che comprandano frasi come “a pochi km da Mosca”, “nei pressi della capitale russa”, “nella regione di Mosca”.

Dato che l’italiano medio condivide fin dall’infanzia il mio approccio diffidente alla geografia, i giornalisti tendono a rapportare a Mosca ogni notizia che abbia a che fare con la Federazione Russa, confidando che anche chi non ha mai raggiunto la sufficienza nella materia padroneggi i rudimenti della geografia: le capitali europee. Quello che i media probabilmente non sospettano è l’ansia che le loro dichiarazioni approssimative possono generare in una coppia di genitori romani i cui livelli di apprensione vengono costantemente monitorati dagli istituti di igiene mentale e dalla giuria del Guinness dei primati.

I frammenti del meteorite del 15 febbraio hanno colpito Čeljabinsk, che non è esattamente una cittadina alle porte della capitale, ma un centro industriale che dista da Mosca circa 1500 km. Come a dire che un meteorite cade su Bruxelles e i giornali scrivono che ha distrutto il Colosseo.

Due anni fa stavo tornando dalla stagione in Russia, era il 7 settembre 2011. Un’ora prima che mi mettessi in volo cadde un aereo a Jaroslavl’, con a bordo l’intera squadra di hockey della città (una tragedia sentitissima in Russia). Ora, Jaroslavl’ dista da Mosca “solo” 250 km (Roma-Firenze), ma dare la notizia come “Aereo precipita a uno sputo da Mosca” è forse un tantino avventato. Mio padre, appresa la notizia ascoltando la radio in macchina, ha rischiato un infarto e si è poi quasi schiantato catapultandosi a casa per scoprirne di più dall’oracolo internet. Quando l’aereo è atterrato a Fiumicino, i miei genitori si erano ormai reciprocamente rassicurati aggrappandosi alla certezza che io non avessi mai messo piede a Jaroslavl’. Ad ogni modo era evidente il loro disappunto (non per la mia mancata morte, come avrete maliziosamente pensato, ma per la mia “consueta noncuranza per i sentimenti degli altri” – cit. mamma). Effettivamente, una persona sana di mente e consapevole del fatto che la geografia russa in un cervello italiano non c’è proprio modo di farcela stare, sentendosi chiedere: “Ma, se hai saputo dell’aereo precipitato, perché non hai avvisato che stavi bene prima di partire?” avrebbe potuto offrire molte giustificazioni sensate (ero sotto shock; ero già nell’aereo e non potevo usare il cellulare; ero occupata ad accertarmi che tutti i miei amici moscoviti stessero bene; pensavo vi avvisasse la Farnesina).

Risposta di Ale ai genitori stressati da un pomeriggio di ansie e profezie nefaste:
“Ah, vabbè, ma è caduto a Jaroslavl’, mica a Mosca! No dico, che non ce lo sai che ci passano almeno almeno 250 km?”.

Insomma, anche se non avrei mai pensato che una fondamentalista filo-moscovita come me potesse dirlo: in guardia, gente, sembra che in Russia ci sia vita anche fuori Mosca.

 

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Momenti di ordinaria spocchiosità

L’altro giorno ho rischiato di morire soffocata dalle risate mentre leggevo il Joke of the day della pagina facebook del mio quotidiano preferito, The Moscow Times:
A young man is sitting, reading a book, in a Moscow metro car. An old woman enters at a stop, and he jumps up and gives her his seat.
“ Young man, you are from St. Petersburg?”.
“Yes, but how did you know?”.
“ You gave me your seat”.
“ And you are probably a Muscovite”.
“ Yes, but how did you know?”.
“ You didn’t tell me thanks”.

Per chi ha vissuto a Mosca anche solo per qualche tempo un anekdot del genere richiama alla memoria innumerevoli episodi di ordinaria scortesia classificabili sotto la tag “Cafonaggine moscovita”.
Non fraintendetemi, non è che a Mosca vivano solo persone rozze e incivili per cui il prossimo nel migliore dei casi non esiste e nel peggiore è un nemico da abbattere. Non è così. Ma indubbiamente la vita nella capitale riserva esperienze perlopiù incomprensibili a chi non abbia mai vissuto in una città di 12.000.000 di abitanti.

Il primo sintomo della sindrome moscovita è l’andatura nevrotica. A Mosca non si cammina, si marcia. Vuoi per il freddo, vuoi per le distanze mastodontiche tra un posto e l’altro, vuoi per gli orari folli della capitale, i moscoviti hanno sviluppato un passo da dittatore isterico in grado di seminare in pochi secondi chiunque non sia degno di tale evoluzione della specie. Volenti o nolenti, in breve tempo si finisce per imparare a muoversi alla stessa velocità di crociera (anche perché l’alternativa è la morte). Ricordo ancora il panico negli occhi dei miei poveri genitori quando vennero a trovarmi a Mosca: erano sconvolti dall’andatura di una figlia ingrata che puntualmente li seminava ad ogni incrocio.

Interessanti anche le conversazioni-tipo del genere:
– Sai, sono stata di nuovo in quel negozio, il commesso è davvero delizioso, sempre gentilissimo e disponibile.
– Difficile che sia di Mosca. Verrà dalla provincia (N.B. la nozione russa di provincia comprende l’intero territorio nazionale ad eccezione di Mosca e Pietroburgo).

E poi c’è da decifrare la passione della burocrazia moscovita per i numeri. In una città così grande, tu non sei Ale, sei il numero del tuo abbonamento ai mezzi, del tuo visto, del tuo cellulare… Aneddoto di vita vissuta:
– Salve, questa è la documentazione dell’università per la richiesta dell’abbonamento alla metro. Dovrebbe esserci tutto.
– Il timbro c’è, la firma del rettore c’è… Bene. Ah, manca il tuo numero studente. Torna quando lo avrai. Il prossimo!
– Ma come? No, dai, sono io, guardi, c’è tutto. Questi sono i miei documenti, la mia foto. Vede, c’è il mio nome qui sopra.
– Senza quel numero tu per me non sei nessuno.

Come avrete capito, in alcuni giorni vivere a Mosca nuoce gravemente all’autostima. E tuttavia, da brava provincialotta (su scala italiana) non posso non invidiare lo snobbismo e la cafonaggine gratuita che solo i moscoviti sanno esprimere nella forma più perfetta. Li guardo con ammirazione e sospiro: “Ah, imparerò mai a prendere la gente a male parole con tanta disinvolura?”.

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Made in Moscow (Kazakhstan)

Healthy eating in Moscow

In condizioni di estrema necessità il nostro cervello è in grado di trovare soluzioni inaspettate a quesiti apparentemente irrisolvibili. Succede, ad esempio, quando si è all’estero da un po’, e lo stomaco inizia a inviare nostalgici SOS culinari che si materializzano in lacrimevoli flashback di cibi dimenticati. In situazioni come questa, essere italiani è una tara che può portare alla rovina.
I nostri stomaci, infatti, sono abituati a ingerire ingredienti genuini, e sigle come DOC, DOP e IGP sono per noi sinonimi di qualità. Cercare di attenersi ai propri principi alimentari in un Paese come la Russia… sì, sembra l’inizio di una buona barzelletta.

Ne sa qualcosa la Piccola Katy – “vegetariana in transito verso il veganismo”, come si autodefiniva a quei tempi -, che non appena arrivata a Mosca si è cimentata in questo improbabile dialogo con la vecchina di fiducia che ci vendeva frutta e verdura:

P.K.: “Salve, vorrei un kg di pomodori. Però mi può dire da dove vengono? Cioè, li coltiva proprio lei? E se sì, dove? La dacia dove si trova il suo orto è più vicina alla città o all’aeroporto?”.
V: “…”
P.K.: “Magari invece dei pomodori prendo queste zucchine. Sembrano buone, o almeno di dimensioni non palesemente transgeniche come quelle del supermercato. Ah ah!”.
V: “…”
P.K.: “Ma lei è proprio di Mosca?”.
V: “Più o meno”.
P.K.: “Cioè?”.
V: “Del Kazakistan”.

Superfluo aggiungere che da quel giorno abbiamo dovuto comprare frutta e verdura al supermercato, dato che la vecchina aveva un brivido di terrore solo a veder passare la Piccola Katy davanti al suo chiosco. E d’altra parte, anche la Piccola aveva capito che il concetto russo di Indicazione Geografica Protetta comprende almeno l’intero territorio dell’URSS.

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Mi nevica dentro

Nevica. Da ore. Ma non è quello che mi spaventa. Il problema è il vento, che sbatte sempre più violentemente fiocchi di neve del diametro di 5 cm contro la finestra della mia stanza. Nel cortile dell’MGU vedo la tormenta gonfiare mulinelli di ghiaccio e foglie.

Sono più che certa che la mia finestra non supererà la notte. Ogni stanza ha una finestra e ogni finestra è dotata di due vetri, che si presuppone siano sufficienti a tener fuori l’inverno. Tra i due vetri, una zona franca di 20 cm in cui i -15° dell’esterno fanno amicizia con i +25° che il riscaldamento centralizzato regala al mio tugurio. Quello spazio è il mio frigo. Temperatura perfetta per conservare latte, uova, cioccolata e altri generi di prima necessità.

Per areare la stanza di solito è sufficiente aprire l’infisso del primo vetro: il legno della finestra risale, come del resto qualsiasi altra cosa nell’MGU, ai primi anni ’50, ed è ormai parecchio generoso con spifferi e correnti.

23.45: vado a letto. La temperatura nella stanza ormai è ampiamente al di sotto del livello di sopravvivenza di un organismo romano. Sul pigiama indosso anche la mia felpa da calamità naturale. Mi addormento.

02.10: A svegliarmi è il cigolio della brandina che sussulta sotto i miei brividi. Afferro il cappotto e mi avvicino alla finestra. Una patina di ghiaccio ricopre le mattonelle sotto i vetri: la finestra ha ceduto, mi nevica in camera. Cerco asilo in bagno, sotto un getto di acqua calda.

Contro ogni aspettativa sopravvivo alla tormenta. Ma al mattino urge una soluzione: non voglio passare un’altra notte all’addiaccio.
Idea! Subaffitto il davanzale-frigo della Ciociara e con i sacchetti di nylon della spesa incornicio la mia finestra, facendo ben attenzione a tappare ogni spiraglio.

Genio italiano vs bufera moscovita

Vittoria! Che mente suprema! Quei sacchetti rimarranno lì PER SEMPRE!

Salvo svegliarmi in piena notte tre settimane più tardi in preda a una crisi respiratoria dovuta all’assenza di ossigeno nella mia stanza.

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Questione di metodo

Di solito, quando si viaggia in un Paese straniero, una delle prime cose che si cerca di imparare è come si sta in fila. Ogni cultura, infatti, sembra avere il proprio metodo.

Concezione nordeuropea di fila

Concezione italiana di fila

 

 

 

 

 

 

 

 

Fortunatamente in Russia non ho mai dovuto operare nessuna forzatura alla mia ottusa testolina italiana. E questo per il semplice fatto che in Russia uno straniero non deve imparare come si sta in fila, bensì come NON si sta in fila. Devo ammetterlo, i primi tempi anch’io ho avuto qualche difficoltà ad abituarmi, ma alla fine mi sono dovuta arrendere agli ovvi vantaggi del metodo russo.

Poniamo di dover ottenere un timbro sul piano di studi dalla segreteria di facoltà. Ci si reca presso l’apposito ufficio e lì si domanda a quelle 2-3 persone in coda chi di loro sia l’ultimo. Fin qui tutto normale, all’italiana insomma. La risposta potrebbe essere: “Io!”. O magari: “Lei”. Ingenui. In Russia una risposta tipo sarebbe:

– C’è lei, poi un ragazzo con lo zaino blu, che è venuto insieme a una bionda con le trecce. Dopo di loro c’è una signora con un barboncino e poi una bassetta mora. Ah, però prima della nana c’è una cinese, ma non so se torna perché ha detto che aveva da fare. Dopo di loro tocca a me, e poi c’è un ragazzetto occhialuto. Quindi potresti essere dopo di lui.

Ed è letale proprio quel condizionale, dietro il quale potrebbero celarsi ancora chissà quanti e quali ologrammi. Nel tempo medio di attesa presso un qualsiasi ufficio pubblico, un russo riesce a fumarsi almeno 3 sigarette con la decina di conoscenti incontrati in fila, a leggere due quotidiani, a fare un salto ai servizi, a comprare una torta per il compleanno della coinquilina e a pranzare in mensa.

La mensa… È proprio lì che il metodo russo esprime al massimo le proprie potenzialità. Arrivi in mensa, prendi un vassoio e ti metti in fila, esultando perché, nonostante sia l’ora di punta, davanti a te ci sono solo 5 persone. Sei affamato, e ogni tanto fai capolino per sbirciare i vassoi degli altri studenti. Hai già deciso cosa ordinare e tra poco sarà il tuo turno. Ma ecco che una chiassosa mandria di studenti si riversa all’interno. Non fai in tempo a pensare “per fortuna sono arrivato cinque minuti prima di loro” che una dozzina di persone ti sta già superando, armata di vassoio. Sono diretti verso il primo della fila, evidentemente loro amico, che stava tenendo il posto a tutta la comitiva. Unica chance di mangiare ad un’ora decente? Avere amici pazienti che fanno la fila per te.

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Le mie camere con vista su Mosca

Settembre 2007:
Prima volta a Mosca. Soggiorno-studio all’Università Statale Lomonosov, la famosa MGU, l’università russa per eccellenza. Io e La Ciociara dormiamo in un modulo abitativo composto da due stanze che, prese insieme, non arrivano alla metratura della mia camera romana (tutt’altro che spaziosa, ve lo assicuro). Capisco al primo sguardo che, nel grattacielo staliniano che ospita il nostro dormitorio, nel conteggio dei 12 mq di superficie abitativa spettanti ad ogni cittadino sovietico hanno fatto rientrare non solo la stanza, ma anche il bagno, la cucina in comune, l’androne e probabilmente l’ascensore. Saranno tre mesi gelidi, trascorsi il meno possibile tra quelle quattro mura.

Una brandina e un tozzo di pane

Prima camera con vista moscovita: cortile dell’MGU su cui affacciano circa 400 camere con vista sulla mia

 

 

 

 

 

 

Settembre 2010:
Torno a Mosca dopo un’apnea di tre anni. Sempre MGU. Questa volta sono senza borsa di studio, perché ho già terminato l’università. Pago da me e per questo mi mettono nel settore dei dottorandi e dei professori. Scopro che la camera in cui avevo soggiornato nel 2007 era considerata di categoria deluxe e che dottorandi e professori hanno diritto a una superficie abitativa minore rispetto agli studenti in arrivo dalle “prestigiose” università occidentali. Somma gioia.
La nuova camera si trova ad un piano molto più basso, ma almeno ha la vista sugli alberi del cortile. Ah be’, allora.

4 mq di stanza con vista su 4 mq di giardino

Maggio 2011:
Rieccomi a Mosca, questa volta per lavoro. La società ci paga vitto e alloggio e così scopro che si può vivere nella capitale senza essere rinchiusi in una catapecchia universitaria spacciata per dormitorio. Scopro anche che a Mosca c’è l’estate, e il caldo, tanto tanto caldo. La mia nuova camera, che divido con la Piccola Katy, ha una superficie pari almeno a 3-4 stanze dell’MGU. Mi monto la testa e inizio a disseminare oggetti ovunque per marcare il mio territorio.

Questa cassettiera è mia. Anche questo armadio è mio. La libreria è mia. Mia. Mio. Mio.

Maggio 2012:
Di nuovo a Mosca per lavoro. Questa volta la società si è superata: viviamo al 13° piano di un grattacielo ultramoderno in un appartamento lussuosissimo. Inizio a capire perché mi paghino così poco. Nonostante il prestigio della nuova casa, la mia superficie abitativa viene notevolmente ridotta: divido la stanza con Anna e la Piccola Katy, le due ragazze più folli che mi sia mai capitato di conoscere. Ci mettiamo un po’ a sincronizzare i nostri orari e i primi tempi capita che mi guardino storto se interrompo un pisolino facendo irruzione con la macchina fotografica. In cambio io metto in chiaro di essere pronta a soffocare nel sonno la prima che mi tratterà male. Torna la pace e diventiamo regine dei pisolini di gruppo.

Annarella: il pisolo più veloce dell’est

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Iu ken teik de gherl aut ov de siti, bacciù kant teik de siti aut ov de gherl

Il titolo di questo post (che la dice lunga sulla meravigliosa pronuncia inglese da periferia del terzo mondo di cui mi hanno dotata anni di ascolto frenetico degli Oasis – Yap, Manchester rules!) è la mia ennesima dichiarazione d’amore per Mosca.

Anche questa volta alla fine sono tornata a casa. La stagione turistica si è conclusa, e con essa il contratto e la pacchia di avere una casa gratis nella capitale. Per un po’, quindi, me ne starò buona nella mia tana romana.

Tuttavia, ci sono un paio di motivi che mi spingono a tenere in piedi questo blog, anche se “a distanza”:

  1. guardando le stats ho notato che spesso la gente mi trova mentre è in cerca di informazioni su qualche monumento di Mosca, o di una delucidazione su cosa sia un propusk, e mi sono convinta che la mia missione divulgatrice non possa e non debba fermarsi qui (Madre Teresa e Marie Curie, chi erano costoro?);
  2. continuare a scrivere di Mosca e raccontare ancora qualcuno dei miei trascorsi nella città mi aiuterà forse a non impazzire di nostalgia (sono una schifosa egoista).

Patti chiari, amicizia lunga, dunque. Nei prossimi post leggerete di cose avvenute in un passato più o meno recente e il momento Amarcord proseguirà fino a nuovo ordine.

До скорого!

P.S. Disclaimer del disclaimer: se la citazione glamour del titolo vi sembra intollerabile, apprezzerete almeno la traslitterazione alla Benigni-Waits di Daunbailò!

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